Jorit è stato ospite in Good Morning Kiss Kiss.
Abbiamo con noi il più grande street artist in Italia: Jorit!
«Ciao!»
La domanda che tutti ti fanno è: come ti chiami?
«Jorit, proprio Jorit.»
È il tuo nome di battesimo.
«Spiego l’arcano. Mia mamma è olandese e mi ha voluto dare un nome olandese che però anche in Olanda non si porta. Quindi ho un nome che a Napoli non ha nessuno, ma nemmeno in Olanda.»
Ha un corrispettivo in italiano?
«No, assolutamente Jorit. Il mio secondo nome è Ciro, nome olandese classico! È il nome di mio nonno che è napoletanissimo. Quindi faccio questa combinazione: Jorit Ciro.»
Sei l’autore di alcuni dei murales più belli d’Italia. Ogni giorno ne vedo uno nel Centro Direzionale di Napoli.
«Al Centro Direzionale sto per concludere l’opera più alta al mondo, che supera quell’altra.»
Di quanto parliamo?
«108 metri. Però è anche una delle più ampie. Lo dico perché per me è un motivo di vanto che quest’opera sia a Napoli, al di là del fatto che la sto facendo io. Sono orgoglioso di portare a Napoli un record e un’eccellenza.»
Tra le tante.
«Tra le tantissime, nel mio piccolo. Però anche nell’ambito della street art, che si sta affermando.»
Quando la finirai?
«A fine novembre. Sono quattro mesi di lavoro.»
Entrerai nel Guinness dei primati.
«Già c’ero, però lo superiamo ulteriormente.»
Stai superando te stesso praticamente. Quando fai i murales, non al Centro Direzionale dove ci sono le vetrate, ma magari sulle stecche di San Giovanni a Teduccio dove ci sono i palazzoni altissimi, fai un passaggio di intonaco, per intenderci, o lo fai proprio su quello che c’è?
«Questa è una bella domanda. La conservazione delle opere non dipende da me. Io uso lo spray, che è concepito per il “vandalismo” del writing. Quindi treni o altre superfici, cose che io non ho mai fatto, voglio specificarlo. Lo spray attacca su tutto e mantiene. I palazzi, invece, sono in un contesto in cui cade l’intonaco dai muri. A San Giovanni a Teduccio per fortuna ne costruiranno di nuovi. Lì non posso operare. Anche per fare l’intonaco ci vuole una certa mano, mi ci sono affacciato ma con scarsi risultati.»
È un’arte anche quella. Tu hai una tecnica molto particolare, tu hai il drone…
«Solo per quelle a terra, solo per quelle in orizzontale. Per quelli in verticale mi allontano, non c’è bisogno del drone. Ti devi allontanare almeno della stessa grandezza dell’opera, quindi se hai 10 piani devi allontanare almeno di 30 metri, altrimenti non lo vedi e vieni schiacciato dalla prospettiva. Se sono orizzontali serve per forza il drone se no non li vedi.»
Possiamo definirla una tecnica o un trick?
«Diciamo che la utilizzano tutti quanti. È per vedere bene l’opera, se no si sforma, gli angoli si stringono.»
Ti è capitato mai di fare un lavoro e poi allontanarti e ripensare “lo rifacciamo”?
«È sempre così, non sono mai soddisfatto. Però a un certo punto devi finire, passa un mese, passano due mesi. E te ne devi pure andare.»
Abbiamo visto, tra le tue opere, la faccia di San Gennaro. Quando scegli i volti hai detto spesso che scegli persone comuni che poi trasfiguri nei personaggi.
«Esatto, San Gennaro non è San Gennaro, ma è Gennaro. Un mio amico che faceva il carrozziere e adesso ha cambiato lavoro. Per me era importante rendere santo il popolo, prendere una persona del popolo, uno comune e farlo diventare santo. A me è piaciuto molto quel tipo di ragionamento, anche perché è vicino al Duomo. È stato riconosciuto come San Gennaro, quindi adesso noi, nel piccolo di quell’opera, abbiamo San Gennaro che invece è Gennaro.»
Infatti, con quell’opera ci hai comunicato che è stato un giovane anche lui, pur guardando i santi sempre con un timore reverenziale.
«Esattamente. “Facciamo santo il popolo che martire lo è da sempre.” Non è mia.»
Non solo Napoli, hai lasciato opere in tutto il mondo. Quale tua opera internazionale ti ha colpito e ha avuto un risalto particolare?
«Forse le prime volte che son stato a New York, ci sono molto legato, anche perché è sul 41° parallelo come Napoli, mi ci sono legato molto, anche per la grande cultura di street art. C’è un’opera che si chiama Sonia, che è la figlia di un mio amico. Quella mi ha dato molto risalto a livello internazionale, ormai 15 anni fa.»
Sappiamo che hai un daspo a New York, no? Sappiamo tutto. Ne hai un altro anche peggiore in un altro Paese.
«Veramente ne ho in altri due Paesi.»
E a New York?
«Ancora non ho capito se proprio non ci posso andare o se posso andare e rischio qualcosa.»
Come funziona il tuo lavoro? Nel senso, arrivi in un posto e decidi tu il soggetto da dipingere? Bisogna chiedere dei permessi? Quanto costa comprare colori, stenderli. Come funziona? Come sono gli step?
«In realtà non c’è uno schema preciso, non è che a 13 anni, quando ho iniziato a dipingere, ho detto “voglio che questo sia il mio lavoro, voglio vivere di questo”. Fortunatamente mi è andata molto bene. Poi, l’opera è innanzitutto un incontro con la comunità del posto. Infatti, spesso qualcuno mi dice “le tue opere non mi piacciono”. Ma senti, fatti i fatti tuoi. Capisco, tu puoi passare, ma l’importante sono le persone che ci vivono. A San Giovanni quelle opere sono diventate dei simboli e le persone dicono con orgoglio che vivono dove c’è Maradona, dove c’è Niccolò, un bambino autistico che ho messo a fianco, dove c’è Che Guevara dall’altro lato. Diventano dei punti di riferimento. L’incontro è quello con la comunità, li incontro, ci parlo, vengo chiamato da loro.»
Poi serve l’autorizzazione del comune.
«Sì, devi chiedere i permessi ovviamente.»
Quindi è tutto legale, non devi far niente di notte.
«Beh, su un palazzo è difficile farlo in maniera illegale, perché se stai lì un mese prima o poi ti beccano. Anche a San Giovanni, che non c’è tutto sto controllo del territorio.»
Un murales, ad esempio uno di quelli di San Giovanni, quanto può costare mediamente?
«Ci sono alcune opere su cui non guadagno niente. Come lavoro, guadagno sui collezionisti, faccio opere su tela. Fare i murales costa, ci sono i materiali, i ponteggi che vanno montati, c’è tutto un lavoro dietro. La preparazione, monta il ponte, sistema la parete.»
Hai ritratto tanti volti comuni, ma anche persone di un certo calibro come Pino Daniele, De André, Lucio Dalla. Ti chiediamo in anteprima, hai in mente uno nuovo? Un musicista, un personaggio famoso.
«Guarda, il mio giudizio sulla musica contemporanea, soprattutto per quello da cui provengo io che è l’hip hop e il rap, è abbastanza negativo.»
Hai disegnato anche Fedez.
«Sulla questione Fedez, all’epoca mi piaceva per i messaggi che portava avanti. Ad esempio, sulla Palestina ha preso delle posizioni molto avanzate e sono contento per questo. Però la scena rap e trap di adesso non mi piace. Non ho in mente un cantante.»
Ma non hai proprio in mente nessuno in generale?
«Non vorrei essere snob, ma la contemporaneità mi delude un po’. Se devo mettere a paragone De André con uno di adesso… poi, quando avevo io 13, 14 anni, quelli che dicevano certe cose nella musica per noi erano i cuozzi [i tamarri, ndr] che volevano fare i criminali. Noi volevamo dare messaggi diversi e ci distaccavamo da quella cosa dipingendo. Non eravamo fuori da quel contesto, io sono cresciuto a Quarto, una realtà abbastanza difficile. La musica trap di adesso, non voglio utilizzare brutte parole, ma non mi ispira particolarmente.»
Jorit, in chiusura, ma Banksy chi è? L’hai mai visto?
«No, però conosco una persona che lo conosce. Mi ha detto che non è un ragazzo conosciuto, forse verrà fuori.»
È napoletano o no?
«No, è di Bristol. Al 100%.»
Jorit, grazie di essere stato con noi!
«Grazie a voi per l’invito.»