Michael Ray Richardson, per tutti “Sugar”, si è spento a 70 anni dopo una lunga malattia. L’ex stella della Virtus Bologna, tra i giocatori stranieri più carismatici della Serie A di basket, lascia un ricordo indelebile nel cuore dei tifosi. Con il suo talento istintivo e la personalità travolgente, aveva segnato un’epoca in cui il basket italiano guardava dritto negli occhi l’NBA.
Dall’NBA al mito
Nato a Lubbock, in Texas, e cresciuto a Denver, Richardson mostrò fin da giovanissimo un talento fuori dal comune. Dopo gli anni al college di Montana, nel 1978 fu scelto con il quarto pick assoluto al draft NBA dai New York Knicks, appena due posizioni prima di un certo Larry Bird, destinato a diventare leggenda dei Boston Celtics.
In America giocò otto stagioni, alternando momenti di gloria e cadute fragorose. Fu protagonista con i Knicks fino al 1982, poi con i New Jersey Nets, dove raggiunse l’apice tecnico e statistico. Ma la sua carriera NBA si interruppe bruscamente nel 1986, dopo tre positività consecutive alla cocaina e la conseguente radiazione decisa dalla lega. Quella decisione segnò la fine di una fase, ma non della sua storia cestistica.
La rinascita italiana
Due anni dopo, nel 1988, Richardson approdò in Italia, accolto dalla Virtus Bologna, allora sponsorizzata Knorr. In panchina sedevano Bob Hill e un giovane Ettore Messina come vice, mentre in campo lo attendevano Roberto Brunamonti e Renato Villalta. L’impatto fu immediato: “Sugar” trascinò la Virtus alla vittoria in Coppa Italia nel 1989 e si guadagnò il titolo di miglior giocatore dell’All Star Game grazie a una prestazione da 50 punti.
L’anno successivo arrivò il bis: ancora Coppa Italia e, in campo europeo, il trionfo in Coppa delle Coppe, con Richardson autentico leader tecnico e carismatico. A Bologna divenne un’icona, amato per il suo gioco spettacolare e il sorriso contagioso, ma anche temuto per il carattere imprevedibile.
Nel 1991, però, un nuovo test antidroga positivo pose fine alla sua esperienza sotto le Due Torri. Richardson sostenne che si trattasse di un anestetico, ma il rapporto con la società si chiuse definitivamente.
Gli ultimi anni da giocatore
Dopo l’addio a Bologna iniziò un lungo giro d’Europa: Croazia con lo Spalato, poi Livorno, Antibes e Cholet in Francia, infine Forlì. Chiuse la carriera nel 2000, all’AC Golfe-Juan-Vallauris, nei pressi di Nizza, all’età di 47 anni. In Italia restò una leggenda, ricordato come uno dei pochi capaci di unire il talento NBA alla passione del nostro basket.
Il figlio Amir, l’eredità e il legame con l’Italia
Oggi la sua storia continua attraverso il figlio Amir Richardson, centrocampista della Fiorentina e della nazionale marocchina, nato in Riviera francese durante l’ultima fase della carriera del padre. Classe 2002, Amir ha iniziato al Le Havre, club che ha formato talenti come Pogba e Mahrez, prima di affermarsi al Reims e infine trasferirsi a Firenze.
Alle Olimpiadi di Parigi 2024 ha conquistato il bronzo con il Marocco, segnando un gol memorabile contro l’Iraq. Alla notizia della scomparsa di suo padre, la Fiorentina ha espresso il proprio cordoglio con un comunicato ufficiale firmato dal presidente Rocco Commisso, dalla dirigenza e da tutta la squadra: un gesto di vicinanza che sottolinea come il nome Richardson resti sinonimo di passione sportiva, anche se in un campo diverso.
Un talento puro e tormentato
Michael Ray Richardson resterà una figura sospesa tra genio e fragilità. In campo era un artista del pallone da basket: improvvisava, inventava, faceva esplodere i palazzetti. Fu capace di trasformare una Virtus forte ma tradizionale in una squadra elettrica, con un gioco rapido e imprevedibile.
Fuori dal campo, però, la dipendenza e la ribellione gli tolsero ciò che il talento gli aveva regalato. Eppure, anche nei suoi errori, rimase umano, autentico, senza mai nascondersi.
Oggi, a distanza di decenni dalle sue magie in maglia bianconera, chi lo ha visto giocare ricorda ancora quella risata contagiosa, quel modo unico di accarezzare il pallone e di infiammare il pubblico.
Un ricordo che non si spegne
La notizia della sua morte ha attraversato il mondo del basket con un senso di malinconia profonda. Da Bologna a Livorno, da New York a Nizza, “Sugar” ha lasciato una scia di ricordi, di storie e di emozioni che nessuna squalifica o caduta potrà cancellare.
Era un talento indisciplinato, un genio fragile, ma soprattutto un uomo capace di lasciare un segno ovunque sia passato.
E per chi lo ha amato, come tifoso o come avversario, il suo nome continuerà a evocare la magia di un’epoca in cui il basket era anche racconto, passione e imperfezione.
