“The Life of Chuck” è un film diretto da Mike Flanagan, basato sull’omonimo racconto di Stephen King contenuto nella raccolta “Se scorre il sangue”. La pellicola, in uscita nelle sale italiane il 18 settembre, ripercorre la vita di Chuck Krantz, interpretato da Tom Hiddleston, dalla sua morte prematura a 39 anni fino all’infanzia, attraverso una narrazione suddivisa in tre atti che procedono in ordine cronologico inverso.
Una narrazione a ritroso tra apocalisse e infanzia
Il film si articola in tre segmenti distinti. Il primo capitolo segue pochi personaggi mentre affrontano l’imminente fine del mondo, mentre Chuck sta morendo; gli altri ne seguono l’infanzia/l’adolescenza e l’età adulta. Questa struttura narrativa permette di esplorare le diverse fasi della vita di Chuck, evidenziando come ogni momento, anche il più ordinario, abbia un significato profondo.
La passione per la danza e l’interpretazione di Tom Hiddleston
Nella sua placida esistenza, l’unica cosa che lo appassiona è la danza: ha imparato a ballare guardando le vhs di Gene Kelly ed è il ballerino più bravo della scuola. Anche la compagna più alta, bella e popolare, è attirata da lui quando si esibisce. Ballare lo fa sentire speciale e, quando esegue il monwalk – come se stesse davvero passeggiando sulla Luna – lo è davvero. Da adulto, il culmine della sua tranquilla esistenza di impiegato è costituita da un rigurgito di vitalità: un giorno si esibisce in una lunga, epica, memorabile routine di ballo in mezzo alla strada, davanti a un pubblico occasionale, grondando sicurezza di sé e coinvolgendo una giovane donna timida in un duetto memorabile, come non se ne vedevano da “La La Land”. A proposito di performance, quando Hiddleston è sullo schermo brilla, che monopolizza col suo dilagante carisma e il suo raggiante egocentrismo (ma espanso al punto giusto).
Un’opera che celebra la vita e l’amore
“The Life of Chuck” è un film che è un po’ storia di fantasmi, un po’ romanzo di formazione, un po’ musical e un po’ storia fantascientifica metafisica. Il regista Mike Flanagan, noto per le sue precedenti opere tratte da Stephen King come “Il gioco di Gerald” e “Doctor Sleep”, si distacca dai toni horror per offrire una riflessione sulla vita, l’amore e la memoria. La sua opera è priva di malizia, anche se per i palati di qualcuno questa parabola edificante risulterà troppo zuccherosa. C’è grazia e delicatezza nella sua rappresentazione della perdita, del dolore e dell’accettazione della morte, e c’è una meditazione profonda sulla vita e sui legami umani impressa sullo schermo con maestria.