Pierfrancesco Favino torna al cinema con Il Maestro di Andrea Di Stefano, un film che mette al centro l’imperfezione, la fragilità e il valore umano nascosto dietro la sconfitta. L’attore romano, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, racconta se stesso con disarmante sincerità: dal rapporto complesso con il padre alle sue bugie giovanili, fino alla fiducia in Jannik Sinner, simbolo di una generazione che non teme la solitudine del successo.
Il Maestro e la fragilità come riscatto
Favino interpreta Raul Gatti, un ex tennista disilluso che, salvando il proprio allievo, trova anche il modo di salvare se stesso. “Ho spesso dato vita a personaggi vincenti, caduti dall’alto — spiega l’attore — ma Raul è diverso. È un uomo con le sue debolezze, con i fallimenti e la paura di risultare patetico. In un mondo dominato dal moralismo e dall’idea di successo, raccontare un perdente è quasi un atto di ribellione”.
Nel film, la fragilità diventa la chiave per comprendere l’umanità: “La mia forza, anche come persona, è proprio la fragilità. Mi costringe ad aver bisogno degli altri, e questo non è debolezza: è il contrario dell’arroganza”.
Il rapporto con la solitudine e il valore degli incontri
Favino riflette anche sul mestiere dell’attore e sulla sua inevitabile solitudine: “È una battaglia con se stessi, come nel tennis. Ma, a differenza di un atleta, noi non siamo mai veramente soli nel momento della performance”.
La solitudine, però, è qualcosa che ha dovuto imparare a gestire: “Una volta la pativo, oggi la pratico. Quando sono lontano da casa, cucino, faccio la spesa, cerco di mantenere vive le mie abitudini. Le mie figlie mi hanno aiutato molto: mi fanno sentire radicato, sparso nel mondo”.
Sinner, la fiducia e il coraggio del secondo posto
In un passaggio sorprendente, Favino parla di Jannik Sinner, di cui si dichiara grande estimatore: “Quando è scivolato al secondo posto dietro Alcaraz, ho pensato che fosse meglio per lui. Chi di noi può sapere quali energie gli restavano? Mi fido delle sue scelte. In cima sei solo, esposto alle critiche di tutti: serve forza per restare se stessi”.
L’infanzia, il padre e la nascita di un attore
L’attore ripercorre anche le sue origini: “Volevo recitare da quando avevo sette anni. Mi ero accorto di far ridere gli altri, e quella era la mia chiave di accettazione. Mio padre, però, non voleva che diventassi attore: fu il mio primo antagonista. E oggi lo ringrazio. Nessuno credeva che ce l’avrei fatta: quella sfiducia mi ha dato benzina”.
Le bugie, l’infedeltà e la conquista dell’onestà
Favino non nasconde le ombre del passato: “Sono stato un bugiardo cronico. Ho avuto storie parallele, ho finto di avere soldi che non avevo, ho dato appuntamenti a cui non mi sono mai presentato. Ero il ragazzo di cui ti dicevano di diffidare. Forse lo sono ancora un po’. Ma l’identità è una convenzione sociale repressiva: mi piace pensare che possiamo essere molte cose insieme”.
Tra nostalgia e futuro: il ruolo dei maestri
Infine, l’attore riflette sulla scomparsa dei grandi del cinema: “Da Cardinale a Redford, i giganti se ne vanno, ma io non sono nostalgico. La commemorazione è una zavorra del nostro cinema. Preferisco pensarmi come una freccia verso il futuro, non come un’eco del passato”.
