Bruce Springsteen torna a San Siro: “Alzatevi e lasciate che la libertà risuoni”

Il Boss torna a Milano con un concerto carico di energia e messaggi politici, invitando il pubblico a sostenere la democrazia e a opporsi all'autoritarismo.

Quella di ieri a Milano è stata l’ultima tappa del tour, l’ultima notte europea di Bruce Springsteen, e non poteva esserci cornice più potente di San Siro. Poco dopo le 20 The Boss sale sul palco per salutare Milano e chiudere un viaggio musicale lungo mesi. Con la sua classica eleganza da operaio del rock — camicia bianca, cravatta a pois e gilet nero — Bruce si presenta al pubblico come un predicatore laico deciso a suonare, cantare, denunciare.

Una liturgia rock tra sogno e disillusione

La serata si apre con “My Love Will Not Let You Down”, una dichiarazione d’intenti. Il suono è avvolgente, orchestrato con precisione da una E Street Band in stato di grazia. Ma dietro il romanticismo di facciata c’è tensione, politica, rabbia. Springsteen non fa sconti: “Portiamo libertà, speranza e rock. L’America che amo oggi è diventata infida”. È un Bruce più politico che mai, ferito da ciò che vede accadere nel suo Paese.

Quando intona “Death to My Hometown”, sembra invocare la ribellione contro l’apatia. E poi arriva il colpo più duro: “Rainmaker”, con i maxischermi che mostrano frasi dure come: “Prima eravamo preoccupati, ora siamo spaventati”. L’attacco al trumpismo è diretto e senza retorica.

San Siro risponde: musica e umanità

L’atmosfera si fa più dolce con “Hungry Heart”, mentre tra le tribune ci si abbraccia, ci si commuove. Bruce alterna ballate e inni, mescola la denuncia alla dolcezza, e canta “The River” come un pastore delle praterie americane. Poi esplode l’energia con “Youngstown” e “Murder Incorporated”, due brani graffianti e pieni di tensione.

Nel silenzio che segue, una sola luce sul palco: Bruce intona “Long Walk Home”, che diventa una preghiera civile. “La bandiera che sventola sopra il tribunale ha scritto in pietra chi siamo… sarà una lunga strada per tornare a casa”, recita. Le sue parole sono più che testi: sono editoriali cantati.

“La democrazia è un atto collettivo”

“House of a Thousand Guitars” si trasforma in un inno alla resistenza: “È l’unione intorno ai valori che crea la democrazia”. Il pubblico, illuminato dalle luci dei cellulari, diventa parte della scena. Ma la luce in America, dice Springsteen, ora manca. “My City of Ruins” è una confessione dolorosa: “Perseguitiamo chi parla, ignoriamo i deboli, affamiamo i bambini”. Cita James Baldwin e chiede di proteggere la democrazia americana da “un presidente non adeguato e un governo disonesto”.

Un finale tra festa e consapevolezza

La tensione si allenta, si torna a danzare. Con “Because the Night” e “Wrecking Ball” si accende di nuovo la festa. “The Rising” è resurrezione, “Badlands” è la visione dall’attico della storia, “Thunder Road” è il patto definitivo tra Bruce e il suo popolo. La notte si infittisce, ma la musica continua a splendere.

Poi arriva il momento simbolico: “Born in the U.S.A.” suonata il 4 luglio, davanti a un San Siro invaso dai colori dell’Ucraina, un chiaro segnale contro l’isolazionismo e le scelte impopolari dell’amministrazione Trump.

La promessa della terra sognata

Con “Bobby Jean”, “Dancing in the Dark” e “Tenth Avenue Freeze-Out”, Springsteen saluta, ma non se ne va. Chiude con “This Land Is Your Land”, l’inno di Woody Guthrie. È il suo modo di dire che, nonostante tutto, c’è ancora una Terra della Speranza e dei Sogni da difendere.

San Siro lo sa. Lo sente. Lo canta. Perché, anche quando finisce la musica, la Promised Land resta nel cuore di chi crede ancora nella libertà, nei sogni, nell’umanità.

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