Nel corso di un’intervista profonda e toccante concessa ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, Gino Paoli apre il cuore e attraversa, in un unico filo rosso, musica, amori, dolori e memorie familiari. Un racconto che alterna leggerezza e dramma, pudore e sincerità brutale.
“Un’ingiustizia atroce: dovevo morire prima di Giovanni”
Tra i momenti più intensi dell’intervista, il cantautore parla del lutto che ha segnato la sua vita: la perdita del figlio Giovanni.
«Un dolore che non ho ancora superato. Mi pesa molto parlarne. Un’ingiustizia atroce: deve morire prima il padre del figlio, dovevo morire prima di Giovanni. L’ho detto al prete che ha celebrato il funerale: Dio dov’è? Come può permettere che un padre debba seppellire un figlio?».
Le radici musicali: il padre tenore, la madre violinista
«Il primo è stato Domenico Modugno. Vecchio frac ha aperto la strada a un certo tipo di canzone. Prima c’erano i papaveri e le papere. Lui dimostrò che la canzone poteva raccontare una storia».
Così Paoli risponde quando Cazzullo lo definisce “il capostipite del cantautorato italiano”, rifiutando l’etichetta con umiltà e riconoscenza verso chi l’ha preceduto.
“Ciacola era furbissima”: la vera storia dietro La gatta
Il primo successo del 1959, La gatta, ha una protagonista reale.
«Si chiamava Ciacola. Era furbissima. Siccome si sporgeva dalla finestra vicino al mare, una volta cadde di sotto, e si ferì a una zampa. Guarì subito, ma quando combinava i suoi disastri e mi accadeva di rimproverarla, Ciacola faceva gli occhioni e sollevava la zampa a mezz’aria, come se fosse ancora ferita. Irresistibile».
“Ebbi un amoretto con una puttana…”: Il cielo in una stanza
La genesi di uno dei brani più celebri della musica italiana, Il cielo in una stanza (1960), affonda in un episodio vissuto tra le lenzuola di un bordello:
«Ebbi un amoretto con una puttana…».
Cazzullo lo mette in guardia: «Guardi che la criticheranno». Ma Paoli non arretra:
«Se voleva intervistare un artista politicamente corretto, doveva andare da qualcun altro».
Poi continua:
«Ricordo che era molto carina. Mi piaceva proprio tanto, e lo piacevo a lei. Andai in quella stanza due, tre, quattro volte. Fino a quando non finii i soldi. Dovevo inventarmi qualcosa per rivederla. (…) Rubai i libri a mio padre. Una vecchia enciclopedia, che rivendetti. Per fortuna non se ne accorse. Con il ricavato ripresi a frequentare la mia amata. Fino all’esaurimento delle possibilità. Cosi le dissi: questa è l’ultima volta che ci vediamo. Mi rispose: “Ma no! Vieni lo stesso!”. Cosi andavo a prenderla al mattino, quando non lavorava. E giravamo come due fidanzati. Alla fine arrivò il momento della decisione (…). Lei doveva lasciare Genova. Le puttane non erano fisse in un posto dopo un mese, a volte solo quindici giorni, partivano. Era una rotazione continua: bolognesi, napoletane, siciliane, baresi… Lei mi chiese di seguirla: “Vieni Vieni via con con me”. Ci pensai seriamente. Ebbi grossi dubbi. Poi prevalse il senso del dovere: “Mi dispiace tantissimo, ma debbo dirti di no”. Non l’ho mai rivista».
“Sapore di sale” e la fine dell’Italia felice
«Si, quella canzone è la prima crepa nell’Italia felice degli anni 60. Sentivo che non sarebbe durata».
Così Paoli commenta il significato più profondo di Sapore di sale (1963), una canzone che molti avevano letto solo come una canzone estiva, ma che già rivelava inquietudini e presentimenti.
La polemica con Elodie
Paoli torna su un episodio recente, quando fu accusato di sessismo per una sua frase sulle cantanti contemporanee:
«Un tempo avevamo Mina e la Vanoni, adesso emergono le cantanti che mostrano il culo».
Una dichiarazione che scatenò reazioni, tra cui quella di Elodie. Ma lui chiarisce:
«Certo. Parlavo in generale, pensando non solo all’Italia. Giuro che non sapevo chi fosse Elodie. Poi mia moglie mi ha mostrato una sua foto. È una bella donna».
“Ho vissuto nel modo più malsano possibile”
Gino Paoli oggi ha novant’anni, ma non rinnega nulla del suo passato.
«Con lo stile di vita più malsano possibile: per decenni ho fumato due pacchetti di sigarette e bevuto una bottiglia di whisky al giorno. L’ho detto a un convegno di gerontologi, studiosi della vecchiaia, e ho avuto dieci minuti di applausi. Il mio medico mi vuole rigare la macchina».
Anche qui, tra ironia e realismo, emerge il ritratto di un uomo che non si è mai nascosto.
“Ho paura della morte delle persone che amo”
«Della mia, no. Ho paura della morte delle persone che amo».
Una chiusura che svela la fragilità dietro l’icona. Una frase che riassume la dimensione privata e universale di un artista che ha attraversato decenni di storia e sentimenti.
Gino Paoli, tra musica e memoria, è rimasto fedele solo a una cosa: la verità. Quella scomoda, cruda, non addomesticata. E forse, proprio per questo, ancora necessaria.